La rosa canina, antenata delle rose coltivate, è una pianta antichissima, nata più di quaranta milioni di anni fa.
Datano a quel tempo infatti i reperti fossili di questo fiore ritrovati nel Colorado e nell´Oregon.
Un fiore quindi molto resistente, che ha passato indenne secoli e secoli, differenziandosi in varie specie.
Una delle leggende più interessanti, legate a questa pianta, vede come protagonista il dio romano Bacco. Essa racconta che il dio del vino si innamorò di una ninfa e che come era solito fare tentò di conquistarla. Spaventata ella fuggì lontano correndo fino a che non inciampò in un cespuglio che sembrava non volerla lasciare andare. Nonostante i suoi tentativi di continuare la fuga essa venne raggiunta. I due giacquero insieme ed una volta conclusosi l’atto tra i due, Bacco ringraziò il cespuglio trasformandolo in una rosa, con i fiori dal colore rosato delicato, lo stesso delle guance della ninfa.
Fu poi Plinio il Vecchio a diffondere la credenza che il decotto delle sue radici fosse un utile rimedio contro la rabbia trasmessa dai morsi dei cani.
Nel 1700 Linné, attribuì a questa rosa l’appellativo “canina”.
Fin dall’antichità le popolazioni le hanno sempre attribuito un doppio valore. Sono infatti state sempre considerati i suoi fiori per la loro bellezza e per il profumo dei boccioli delle sue rose, ma al contempo la pianta stessa veniva vista con un certo timore per via del suo tronco e dei suoi rami pieni di spine molto appuntite e piccole.
Una simbologia di bellezza e dolore, che all’interno del linguaggio dei fiori si traduce da una parte in delicatezza e piacere, ma dall’altra in sofferenza e dolore fisico. Un quadro che si adatta particolarmente ad un amore tormentato.
Un sentimento di quelli che stritolano il cuore e che se da una parte ti scaldano l’animo, dall’altro spesso sono così difficili da gestire che lo star male è quasi una caratteristica insita.
Questa pianta, attualmente, fa parte dei fiori di Bach e ne viene fatto ampio uso nella medicina naturale attraverso la fitoterapia.

“La rosa è il profumo degli dei la gioia degli uomini orna le grazie dell'amore che sboccia è il fiore prediletto di Venere(Anacreonte, Ode 51).
Ci sono molti momenti storici in cui è menzionata la regina dei fiori, ma una delle storie più importanti è conosciuta con il nome: “La guerra delle rose”. A metà del XV secolo, due diverse famiglie britanniche, i cui emblemi erano la rosa bianca di York e la rosa rossa di Lancaster. Oggi noi siamo certi che si trattava della rosa alba maxima e della rosa gallica officinalis. 
Già dal XII secolo, si narra che il secondo nome alla rosa gallica versicolor l’aveva dato l’amante di Enrico II, chiamata fair rosamund, e poi, rosa mundi. La mitologia e tutta la storia sono intrise di simboli o emblemi araldici che contengono questo fiore.
Si narra che le rose siano state create dalla spuma del mare, che circondavano Afrodite, dea dell'amore, mentre usciva dal mare. 
Un'altra leggenda racconta dell’amante Adone di Afrodite che, quando fu ferito in battaglia, dalle sue lacrime, che si erano mescolate al suo sangue, fossero cresciuti dei fiori molto profumati, rose rosso sangue.
Anche presso gli antichi romani si raccontavano molte storie sulle rose. Una delle più belle racconta che Flora, dea della primavera e dei fiori, aveva domandato agli altri dei di aiutarla a trasformare la sua amica defunta, nella regina dei fiori. Un dio le aveva ridato la vita, un'altro l’aveva immersa nel nettare, un’altro le aveva dato il profumo, un’altro il frutto, e la dea Flora le aveva donato i petali. Il risultato era stato, naturalmente, la rosa.  
Gli antichi romani usavano le rose come medicina, “il profumo di rosa potrebbe diventare la medicina.
Altre leggende narrano che i pavimenti dei piani del palazzo, dell’ultima regina della dinastia tolemaica, Cleopatra erano coperti di petali di rosa, e che il saggio Confucio nella sua biblioteca disponeva di 600 libri, su come coltivare le rose.

Il ranunculus asiaticus con tutta probabilità giunse in Europa all’epoca delle Crociate (quindi dal XII al XIII secolo).
In particolare si sa che fu Luigi IX, in ritorno dalla Terra Santa, ad introdurli in Francia: all’epoca però non furono apprezzati in maniera particolare, forse per scarsa conoscenza del metodo colturale.
Si dovette aspettare fino alla metà del 1600 perché qualcuno cominciasse ad apprezzarli e a diffonderli. In particolare l’imperatore ottomano Maometto IV fu un grande appassionato di floricoltura. Diede vita ad una vasta raccolta delle varietà più belle (che fece ricercare in tutta l’Anatolia, in Persia, sull’isola di Rodi e di Creta) che, clandestinamente, giunsero anche in Europa, nel sud della Francia.
Il ranuncolo deve il suo nome proprio alla comunissima rana, questo per la predilezione che il ranuncolo ha nei riguardi dei luoghi paludosi ed umidi, proprio come l'animale.
Esistono diverse varietà di colori, i ranuncoli sono fiori molto gradevoli e colorati, che somigliano a roselline gialle, rosse, rosa, salmone, oro, bianche o arancioni. Sono fiori in grado di trasmettere allegria e colore, di ornare e decorare determinati punti del giardino o del terrazzo con bellezza ed originalità.
Secondo le leggende, un mitologico coyote stava alzando lo sguardo in alto, quando un'aquila piombò addosso e li catturò. Il racconto prosegue dicendo che il coyote utilizzò i ranuncoli come suoi occhi. Uno dei nomi del fiore è “occhi di coyote”, proprio per questo motivo.
Si dice che il fiore esprima il messaggio, Sono abbagliato dal tuo fascino.
Le parti verdi del ranuncolo contengono liquidi molto velenosi. L'uomo deve prestare particolare attenzione al succo che appunto esce da questa pianta perché il contatto con gli occhi può provocare seri problemi alla pupilla ed il contatto con la pelle causa spesso dermatiti. Il pericolo però svanisce se le parti vengono tagliate e seccate e non presenta in ogni caso alcun problema al tatto. Questa pianta costituisce invece un pericolo maggiore per i gatti.

“Non ti scordar di me”, una frase che non indica soltanto un'espressione scambiata tra innamorati, un messaggio d'amore, una speranza o una rimembranza: stiamo parlando di un fiore bellissimo, altresì soprannominato “occhi della Madonna”. Come intuibile, il fiore del non ti scordar di me è da tempi lontanissimi al centro di atmosfere romantiche e sognanti, nel corso degli anni, per la fragilità del fiore, associata alla sua colorazione tenue ed alla bellezza delicata, sull'origine del non ti scordar di me sono fiorite numerosissime leggende.
La particolarissima perifrasi con cui viene ricordato questo fiore sembra essere legata ad un'antica storia: la leggenda narra che in una cittadina austriaca, lungo il fiume Danubio, due giovani innamorati si stavano promettendo amore eterno, scambiandosi questo fiore come simbolo della loro unione. In quel mentre, il ragazzo scivolò nelle acque del fiume e, prima di annegare, riuscì a lanciare un mazzo floreale all'amata gridando «Non ti scordar di me!».
Una romantica leggenda medievale racconta di un cavaliere che stava passeggiando sulla riva di un fiume, in Germania, accanto alla sua dama. Mentre si chinava per raccogliere alcuni di questi fiori cadde in acqua per il peso dell'armatura e venne risucchiato dalla corrente. Prima di sparire tra le rapide fece in tempo a lanciare il mazzolino all'amata e a gridarle: «Non ti scordar di me!».
Come abbiamo accennato, ilnon ti scordar di meè conosciuto anche con l'espressione “occhi della Madonna”: l'origine di questo aforisma risale al tempo di Cristo il quale, in braccio alla Madonna, desiderò che i suoi occhi potessero essere visti per generazioni e generazioni. Toccando dapprima gli occhi e, successivamente, il terreno nacque questo fiore.
In un’altra versione, il fiorellino gridò: «Non ti scordar di me!» ad Adamo ed Eva, che stavano lasciando il Giardino dell’Eden, dopo essere stati cacciati.
Il termine scientifico “myosotis” deriva dalle due parole greche “mus” (topo) e “otos” (orecchio); in effetti, la forma delle foglie è simile alle orecchie di questo roditore.

La mitologia greca ci tramanda che Narciso, figlio del dio delle acque Cefiso e la ninfa Liriope, era un giovane bellissimo. Liriope, per salvaguardare la bellezza del giovane, si recò dall'astrologo Tiresia che, dopo aver consultato l'oracolo, le disse: « Narciso vivrà a lungo e la sua bellezza non si offuscherà. Ma il giovinetto non dovrà più vedere il suo volto».
La profezia di Tiresia si avverò: Narciso restò per sempre adolescente, mantenendo intatta la sua bellezza che svegliava i più teneri sentimenti nelle ninfe che l'avvicinavano. Ma lo splendido ragazzo sfuggiva il mondo e l'amore, preferendo trascorrere il tempo passeggiando da solo nelle foreste sul suo cavallo oppure andando a caccia di animali selvatici.
Un giorno, mentre cacciava, sentì rimbalzare tra le gole della montagna una voce che si esprimeva in canti e risate.
Era Eco, la più incantevole e spensierata ninfa della montagna che, al solo vederlo, s'innamorò perdutamente di lui.
Ma Narciso era tanto fiero e superbo della propria bellezza, che gli pareva cosa di poco conto occuparsi di una semplice ninfa. Non così era per Eco, consumata dall’amore e dal dolore: a poco a poco il sangue le si sciolse nelle vene, il viso le divenne bianco ed il corpo della splendida fanciulla divenne trasparente al punto che non proiettava più ombra sul suolo.
Affranta dal dolore si rinchiuse in una caverna profonda ai piedi della montagna, dove Narciso era solito andare a cacciare. E lì con la sua bella voce armoniosa continuò ad invocare per giorni e notti il suo amato. Inutilmente, perché Narciso, che pur udiva l'angoscioso richiamo, non venne mai e continuò la sua vita appartata. Fu allora che intervennero gli dei per punire tanta ingratitudine. Un giorno, mentre il superbo giovinetto si bagnava in un fiume, vide per la prima volta riflessa nell'acqua limpida l'immagine del suo viso. Se ne innamorò perdutamente e per questa ragione tornava di continuo sulle rive del fiume ad ammirare quella fredda figura. Ma ogni volta che tendeva la mano nel tentativo di afferrarla, la superficie dell'acqua s'increspava, ondeggiava e l'immagine spariva. Una mattina, per vederla meglio, si sporse di più e di più finché perse l'equilibrio cadendo nelle acque, che si rinchiusero per sempre sopra di lui.
Il suo corpo fu trasformato in un fiore di colore giallo dall'intenso profumo, che prese il nome di Narciso.

Molte leggende si narrano intorno a questo fiore delicato.
- “L’usignolo innamorato”: Un giovane usignolo s’innamorò perdutamente di una rondinella. Ogni giorno le dichiarava il suo amore: un canto melodioso risuonava nell’aria intorno alla casa del bosco dove le rondini avevano costruito il nido sotto il tetto. Gli dei, estasiati, si sporgevano dalle nuvole e le fate del bosco dagli alberi per ascoltarlo.
La rondinella, pure, l’ascoltava, ma amava tagliare di più l’aria con le sue ali. Col passare dei giorni il dolcissimo canto si venò di tristezza, sempre più profonda tanto da commuovere la fata più giovane che fece innamorare la rondinella dell’usignolo. Il canto d’amore riprese ad incantare ed a far sognare fate, dei, animali, uomini, tutti quelli che l’ascoltavano.
La gioia dei due innamorati, però, durò poco: per la rondinella giunse il tempo della partenza per i paesi più caldi. La rondinella promise al suo amato  di tornare e gli diede alcune piume bianche, quale pegno del suo amore, che la fata trasformò in bellissimi fiori bianchi: mughetti.
«Quando il primo fiore fiorirà io tornerò» disse la rondinella.
Ecco perché gli usignoli, a primavera, aspettano la fioritura del primo mughetto nel bosco per celebrare il loro amore.
- “La civetteria del mughetto”: In un giorno di allegria, le fate del bosco uscirono dalle loro case segrete per dare vita a una bellissima festa fra gli alberi. Cantarono e ballarono spensierate, ma prese dal vortice della festa avevano abbandonato tra l'erba le tazze che usavano per bere nel ruscello.
Il giorno dopo le ritrovarono trasformate in profumatissimi fiori: Il loro Nume aveva pensato bene di nasconderle a sguardi indiscreti.
Per questo i mughetti vengono chiamati anche tazzine delle fate.
Il mughetto è sinonimo di felicità e portafortuna. 

Il nome generico “leucanthemum” deriva da due parole greche “leukos”, che significa bianco ed “anthemon”, che significa fiore, per il colore dei fiori ligulati simili a petali.
L’origine della margherita risale a più di quattromila anni fa. Sono stati ritrovati reperti di antiche ceramiche così decorate in Egitto e nel Medio Oriente, oltre a forcine d'oro per capelli con questi ornamenti negli scavi del palazzo minoico sull'isola di Creta.
In una leggenda celtica, gli dei avevano sparso a terra le margherite, simbolo di innocenza, per alleviare il dolore ai genitori dei bambini morti durante il parto.
Nel Medio Evo, gli agricoltori inglesi sostenevano che la bella stagione non era ancora arrivata finché non era possibile posare il piede su sette (o nove o dodici) margherite fiorite in un colpo solo nel prato.
Inoltre credevano che trapiantare quelle selvatiche in un giardino coltivato portasse sfortuna e che una ragazza avrebbe potuto sapere per quanti anni doveva ancora aspettare di sposarsi contando quanti di questi fiori erano rimasti in una manciata strappata ad occhi chiusi.
I cavalieri innamorati partivano in battaglia con addosso una margherita e le loro amate li attendevano disegnando questo fiore. Dopo avere ricevuto una proposta d’amore, era tradizione che la fanciulla rispondeva in modo affermativo ponendo una ghirlanda di margherite sul capo.
Secondo un racconto cristiano, invece, i Re Magi in viaggio capirono di aver trovato dove si trovava la Sacra Famiglia di Gesù neonato quando, dopo aver chiesto un segno in aiuto, notarono improvvisamente moltissime piccole margherite bianche nei pressi di una stalla e ne riconobbero la somiglianza con la stella cometa che li aveva condotti a Betlemme.

Le margherite sembrano avere facoltà profetiche. Da secoli gli innamorati la sfogliano per sapere se il loro amore è ricambiato ed è il simbolo della semplicità, freschezza e purezza. 

Un’antica leggenda indiana racconta che una volta il cielo era abitato da tanti soli. Ma un giorno si fecero la guerra e tutti, tranne uno, caddero in mare e non brillarono più. Anche il più piccolo, quello che era appena nato, fu ucciso. Il mare però, ebbe pietà di lui, gli diede una nuova vita e lasciò che ogni notte risorgesse per vivere tra le stelle. E’ appena visibile, come l’astro più piccolo, ma i raggi che emana hanno l’intensa dolcezza del suo desiderio di vivere. Anche la terra sentì amore per lui e dedicò un fiore: il fiore di loto.
Quando il giorno risplende, il loto nasconde il suo fragile volto al sole, troppo caldo e violento per la sua leggerezza ed attende che nella notte quel piccolo sole, appena visibile in cielo, illumini con il suo desiderio la terra. Allora si solleva a quella tenera carezza di luce e si apre come la più vera promessa d’amore per quel sole che era morto ed è rinato.

Chiunque abbia mai osservato un fiore di loto che emerge da uno stagno torbido, non può non aver notato la bellezza di questa meravigliosa pianta. Il candore del fiore viene messo ancora più in evidenza dall’acqua stessa: proprio per questo il fiore di loto è associato alla purezza ed alla bellezza rispettivamente nelle religioni del buddismo e dell’induismo.
Questa pianta era associata alla rinascita, visto che si chiude di notte ed emerge al sole di giorno. Per questo motivo, il fiore di loto veniva collegato al sole ed alla creazione: non a caso in molti geroglifici è raffigurato mentre emerge dalla “nun (l’acqua primordiale), da cui emerse anche il dio Sole.
Essendo associato alla rinascita, non stupisce che il fiore di loto fosse collegato anche alla morte: il famoso libro egiziano dei morti include incantesimi che sono in grado di trasformare una persona in loto, consentendone così la resurrezione. Nel buddhismo il fiore di loto è noto per essere associato alla purezza, al risveglio spirituale ed alla fedeltà. È considerato un fiore puro in quanto è in grado di nascere perfettamente pulito dalle acque torbide.
Nell’induismo il fiore di loto ha un significato associato alla bellezza, alla fertilità, alla prosperità, alla spiritualità ed all’eternità. La tipologia più comune nelll'induismo è quella bianca.

Nella mitologia greca si racconta come una ninfa di nome Clizia, si fosse perdutamente innamorata del dio del sole Apollo ed ogni giorno non facesse altro che guardare il suo carro di fuoco volare nel cielo.
Apollo, dapprima fu lusingato ed un pochino intenerito da quella devozione, pensò d’esserne a sua volta innamorato e decise di sedurla cosa non difficile per lui, ma ben presto si stancò dell'amore di Clizia e le diede il benservito rivolgendo altrove le sue attenzioni. La povera ninfa pianse ininterrottamente per nove giorni interi. Immobile in mezzo ad un campo, osservava il suo amore attraversare il cielo sul suo carro di fuoco. Così, pian piano, il suo corpo si irrigidì, trasformandosi in uno stelo sottile ma resistente, i suoi piedi si conficcarono nella terra mentre i suoi capelli diventarono una gialla corolla: si era trasformata in un fiore bellissimo color dell'oro, il girasole! Ma anche nella sua nuova forma la piccola ninfa innamorata continua tuttora a seguire il suo amore durante il giro nel cielo.
Per questo motivo la parola girasole esisteva già molto tempo prima che l'heliantus annuus venisse portato in Europa 
ed è evidente che il mito sopracitato (menzionato ne Le Metamorfosidi Ovidio), si riferisca più propriamente all'eliotropio.
Il nome generico helianthus, deriva da due parole greche
“helios”(sole) e anthos”(fiore), in riferimento alla tendenza di questa pianta a girare sempre il capolinoverso il sole, comportamento noto come eliotropismo. Il nome specifico annuus indica il tipo di ciclo biologico (annuale).
Anche il nome comune italiano girasole deriva dalla rotazione in direzione del sole. Il termine girasole è anche usato per indicare le altre piante appartenenti al genere Helianthus, molte delle quali sono perenni
.
In antichità i girasoli erano i fiori che rappresentavano proprio il dio Sole presso le popolazioni indigene. Impossibile infatti non pensare al sole con i suoi petali gialli!
Proprio questa affinità del fiore con il sole, fa sì che al girasole venga associato un significato allegro e spensierato, in grado di infondere gioia ed allegria ma è anche simbolo di amore!

Il nome di questo fiore deriva dal personaggio mitologico Giacinto ucciso da Apollo. Giacinto era figlio di Clio, la musa della Storia, ma piuttosto che seguire gli insegnamenti della madre, aveva preferito seguire le attività fisiche all’aria aperta, cosicché in giovane età si era distinto in molte gare e già vantava invidiabili primati: primo nella maratona di Argo e nella lotta libera, a Corinto con la gara del giavellotto, lanciandolo così lontano da strabiliare gli spettatori, compreso i giudici stessi. Certo, la vittoria di Corinto non era totalmente merito suo, poiché l’amico Zefiro aveva soffiato con violenza per allungare di molto la traiettoria del giavellotto. Giacinto veniva sempre incoraggiato e sostenuto dall’amico nei momenti di maggiore fatica, il vento lo avvolgeva e lo spingeva in avanti asciugando il sudore e alleggerendo la fatica fisica. Spesso Zefiro scomodava i fratelli per aiutarlo, e così anche Eolo soffiava alle spalle del beniamino impegnato a gareggiare.
Un giorno, il giovane incontrò per caso il possente Apollo, il quale decise di aiutarlo, dispensando generosi consigli, insegnandogli tutti i segreti del lancio; allora il giovanetto chiese cosa poteva fare per sdebitarsi con la divinità: «Onorami come merito», rispose Apollo. «Lo farò» rispose Giacinto. «Farò sacrifici solo al tuo altare».
In quel momento una folata di vento gli mosse i capelli: era Zefiro, un po’ ingelosito da quanto aveva sentito. Il suo amico non si era accorto, preso com’era dagli insegnamenti di Apollo, della presenza di Zefiro, che aveva soffiato sulle foglie secche, sollevandole spesso in aria con turbinii e folate di vento. Giacinto, nel frattempo, continuava ad esercitarsi ascoltando i consigli preziosi di Apollo e nel momento del lancio del disco la traiettoria del bronzo fu perfetta, finché Zefiro rabbioso, con il sostegno di cento altri venti, deviò il corso del disco, che curvò di scatto e come un bolide precipitò addosso a Giacinto colpendolo pesantemente alla testa. Il giovane stramazzò esanime, pallido e senza più parole.
Apollo vide il giovane riverso per terra e senza vita. Si sentiva in colpa, e invano tentò di rianimare lo sfortunato. Piangendo volse gli occhi alla vetta dell’Olimpo e pregò Zeus suo padre, di tramutare il corpo del giovane in un fiore, affinché la terrà si arricchisca ad ogni primavera di una nuova meraviglia profumata per sempre. Il generoso Zeus, ascoltò la preghiera e da quel giorno, ogni anno fiorisce il giacinto.

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